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La società del situazionismo


 

“Il sistema di consumo mercantile, anche se una teoria situazionista costituita non fosse
ai esistita come possibile fonte d’ispirazione, contiene implicitamente il suo situazionismo.”

(Daniel Denevert, Teoria della miseria, miseria della teoria)


 

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Il secondo attacco del proletariato contro la società di classe è entrato nella sua seconda fase.


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La prima fase, che è cominciata in modo diffuso negli anni ’50 e che ha raggiunto il suo punto culminante con le lotte aperte della fine degli anni ’60, ha trovato la sua espressione teorica la più avanzata nell’Internazionale Situazionista. Il situazionismo è l’ideologizzazione diretta o implicita della teoria situazionista, nel movimento rivoluzionario e nella società nel suo insieme.


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L’I.S. ha teorizzato tutto il movimento mondiale nel momento stesso in cui partecipava a questo stesso movimento, facendo “passare l’aggressività dei blousons noirs sul piano delle idee”, e dando un’implicazione pratica immediata alle sue posizioni teoriche. Presentava così un modello al movimento rivoluzionario, non soltanto nella forma delle sue conclusioni, ma anche mostrando con l’esempio il metodo della negazione permanente; ed è in questo stesso metodo che si trova la ragione per la quale le sue conclusioni furono quasi sempre giuste.


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Generando in molti dei suoi partigiani le stesse esigenze che praticava essa stessa, e forzando i meno autonomi a diventare autonomi almeno riguardo ad essa, l’I.S. dimostrò che sapeva educare rivoluzionariamente. Nello spazio di alcuni anni, si è assistito ad una democratizzazione dell’attività teorica, che non era stata raggiunta — ammesso che sia stata ricercata — nel vecchio movimento in un secolo. Marx ed Engels non sono riusciti a suscitare dei rivali; nessuna delle correnti del marxismo ha mantenuto la prospettiva unitaria di Marx. L’osservazione di Lenin nel 1914 che “nessuno dei marxisti dopo mezzo secolo aveva compreso Marx” è in realtà una critica della teoria di Marx, non perché fosse troppo difficile, ma perché non aveva riconosciuto e calcolato la sua relazione con la totalità.


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La natura stessa degli errori dei situazionisti — esposti e criticati da loro senza alcuna pietà — è una conferma dei loro metodi. I loro fallimenti, come i loro successi, servono a mettere a punto, chiarire e forzare delle decisioni. Nessun’altra corrente radicale nella storia aveva conosciuto un tale grado di dibattito teorico pubblico intenzionale. Nel vecchio movimento proletario, la polarizzazione teorica conseguente costituiva sempre l’eccezione, l’esplosione che seguiva era contraria alle intenzioni dei teorici stessi, e si arrivava a ciò soltanto come ultima risorsa, quando il mantenimento di un’unità fittizia non era ovviamente più possibile. Marx ed Engels hanno lasciato passare l’occasione di dissociarsi pubblicamente dal Programma di Gotha perché “questi asini di giornali borghesi hanno preso questo programma molto seriamente, vi hanno letto ciò che non contiene e lo hanno interpretato come comunista; ed i lavoratori sembrano fare lo stesso” (Engels a Bebel, 12 ottobre 1875). Così, difendendo con il silenzio un programma contro i suoi nemici, lo hanno difeso anche contro i suoi amici. Quando Engels diceva nella stessa lettera “se la stampa borghese avesse contato un solo individuo con spirito critico, avrebbe smontato questo programma frase per frase, avrebbe esaminato il contenuto reale di ogni frase, avrebbe dimostrato il suo non senso con la più grande chiarezza, avrebbe rivelato le sue contraddizioni ed i suoi spropositi economici (...) ed avrebbe reso l’intero nostro partito terribilmente ridicolo”, descriveva come una deficienza della stampa borghese ciò che effettivamente era una deficienza del movimento rivoluzionario del suo tempo.


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L’espressione concentrata della sovversione storica attuale è diventata decentralizzata. Il mito monolitico dell’I.S. è saltato per sempre. Durante la prima fase, questo mito aveva una certa base oggettiva: al livello in cui operava, l’I.S. non aveva seri rivali. Ora, si assiste ad un confronto pubblico ed internazionale di teorie e di ideologie situazioniste autonome che nessuna tendenza riesce a monopolizzare. Qualsiasi ortodossia situazionista ha perso il suo punto di riferimento centrale. A partire da questa fase, ogni situazionista, o presunto tale, deve seguire la sua strada.


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Le prime critiche del situazionismo sono rimaste fondamentalmente astoriche. Misuravano la povertà teorica dei pro-situs rispetto alla teoria della prima fase. Vedevano bene la miseria soggettiva e le contraddizioni interne di questo milieu, ma non la sua posizione in relazione alla somma dei vettori teorici e pratici di un momento dato; non hanno colto questa “prima applicazione non dialettica” come la debolezza qualitativa dell’insieme, come un necessario “momento del vero”. Anche Le tesi sull’I.S. ed il suo tempo — che sono per tanti riguardi l’espressione sommaria della prima fase nel suo punto di transizione con la seconda — hanno appena accennato all’aspetto propriamente storico del situazionismo.


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Ad ogni tappa della lotta, la realizzazione parziale della critica genera un nuovo punto d’equilibrio proprio con la società dominante. La teoria sfuggendo ai suoi formulatori, tende, attraverso la sua autonoma inerzia ideologica, a formularsi in tutte le permutazioni e combinazioni possibili; ma soprattutto in quelle che riflettono gli sviluppi e le illusioni nuove del momento. Presi nella transizione dalla prima alla seconda fase, i pro-situazionisti del “riflusso del dopo-maggio” personificavano l’inerzia di una teoria confermata. Quest’inerzia ideologica — attraverso la quale i partigiani della teoria situazionista hanno affrontato in modo lacunoso i nuovi sviluppi nella loro pratica, in quella del proletariato ed in quella della società nel suo insieme — ha misurato la debolezza del movimento situazionista; mentre la rapidità, senza precedenti nella storia, con la quale si generava la sua negazione interna — sabotandosi da sé stesso per sostenere un’esplosione che gli era già sfuggita e preparare il terreno per una nuova fase — conferma la sua verità fondamentale.


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I pro-situazionisti hanno visto le questioni della seconda fase nei termini della prima. Trattando le nuove lotte dei lavoratori, diffuse e relativamente coscienti, come atti nichilisti isolati di un’epoca anteriore alla quale sarebbe mancato soprattutto la proverbiale “coscienza di ciò che hanno già fatto”, i pro-situs hanno soltanto mostrato che mancava loro la coscienza di ciò che altri stavano già facendo, e la coscienza di tutto ciò che mancava effettivamente ancora. In ogni lotta, vedevano la stessa semplice conclusione totale ed identificavano il progresso della rivoluzione con l’appropriazione di questa conclusione da parte del proletariato. Così, concentrando astrattamente l’intelligenza della pratica umana al di sopra del processo complesso dello sviluppo della lotta di classe, gli attivisti pro-situs furono i candidati bolscevizzanti di un fantasioso colpo della coscienza di classe; hanno sperato con questa scorciatoia di far passare nella realtà il loro programma consiliarista, di cui hanno trascurato le implicazioni per la loro incomprensione o per la loro impazienza.


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L’I.S. non si è applicata fino ad applicare la sua teoria nell’attività stessa della formulazione di questa teoria, benché la natura stessa di questa teoria abbia implicato la necessità della sua democratizzazione ed abbia così messo la questione all’ordine del giorno. Nel dopo-maggio, né l’I.S., né la nuova generazione di ribelli che aveva ispirato, non avevano realmente esaminato il processo della produzione teorica, né nei suoi metodi, né nelle sue ramificazioni soggettive, oltre ad alcuni procedimenti vaghi ed empirici. Il contraccolpo della realizzazione parziale della teoria situazionista li ha spinti, senza difese, dal delirio megalomane all’incoerenza, in una serie di reazioni a catena di rotture senza contenuto, nell’impotenza, e finalmente, fino alla rimozione in massa di tutta l’esperienza senza che si siano mai chiesti ciò che gli stava accadendo.


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Anche se l’I.S. ha attirato molti partigiani poco preparati, il fatto stesso che tanta gente senza esperienza particolare della politica rivoluzionaria, né alcuna attitudine o gusto per essa, abbia pensato di trovare nell’attività situazionista un terreno dove potrebbe impegnarsi in maniera autonoma e conseguente, è una conferma della radicalità della teoria e dell’epoca. Se il milieu situazionista ha manifestato tante pretese ed illusioni, ciò era soltanto il normale effetto collaterale della prima vittoria di una critica che ha fatto esplodere tante pretese della società dominante, e tante illusioni su di essa.


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Nella misura in cui le ideologie ostili della prima fase hanno deliberatamente mascherato tutto ciò che aveva rapporto con i situazionisti — compresi i concetti più esplicitamente associati a loro — la scoperta ulteriore della critica situazionista aveva quest’effetto inverso ed esagerato di conferire ai situazionisti un monopolio apparente della comprensione radicale della società moderna e della sua opposizione. Di qui il carattere brusco, fanatico, di una improvvisa conversione religiosa che ha rivestito l’adesione alla critica situationniste (che spesso ha dato luogo ulteriormente, con un atteggiamento esattamente simmetrico, ad un rifiuto di questa in toto). Al contrario, il giovane rivoluzionario che ora aderisce alle posizioni situazioniste tende ad essere meno incline a quest’eccesso fanatico, proprio perché le diverse sfumature della lotta situazionista e del suo recupero sono diventate un aspetto familiare del suo mondo.


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Nel contesto della seconda fase, la rivoluzione non è più un fenomeno apparentemente marginale, ma un fenomeno visibilmente centrale. I paesi sottosviluppati hanno perso il loro apparente monopolio della contestazione; ma le rivoluzioni non si sono fermate, sono semplicemente diventate moderne, e somigliano sempre più alle lotte nei paesi progrediti. La società che proclamava il suo benessere è ora ufficialmente in crisi. I gesti di rivolta un tempo isolati contro una miseria essa stessa apparentemente isolata, ora sanno di essere generali, proliferano, straripano e scoraggiano ogni sforzo per contarli. Il 1968 fu il momento in cui i movimenti rivoluzionari iniziarono a vedersi in compagnia internazionale, ed è questa nuova visibilità mondiale che ha fatto definitivamente volare in pezzi le ideologie che vedevano la rivoluzione ovunque, eccetto nel proletariato. Il 1968 fu anche l’ultimo momento in cui le rivolte importanti potevano sembrare rivolte di studenti.


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Il proletariato ha iniziato ad agire da sé, ma finora solo appena per sé. Le rivolte continuano, come durante gli ultimi cent’anni, come reazioni soprattutto difensive: appropriazione delle fabbriche abbandonate dai loro proprietari, o appropriazione delle lotte abbandonate dai loro dirigenti (in particolare nei periodi di dopo-guerra). Se dei settori del proletariato hanno iniziato a parlare per sé stessi, devono ancora elaborare un programma internazionalista francamente rivoluzionario, ed esprimere effettivamente i loro scopi e le loro tendenze in modo internazionale. Se questi settori del proletariato fungono già da esempio ai proletari di altri paesi, è ancora attraverso la mediazione de facto dei gruppi radicali, e dell’informazione spettacolare.


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Quest’ideologia della prima fase che insisteva sulla realizzazione concreta del cambiamento radicale senza cogliere il negativo o la totalità, ha trovato la sua realizzazione nella proliferazione di quelle che sono state chiamate le istituzioni parallele. L’istituzione parallela differisce dal riformismo classico essendo soprattutto un riformismo immediato ed autogestito, che non attende lo Stato. Recupera l’iniziativa e l’energia dei piccoli malcontenti, ed è un indicatore sensibile dei difetti del sistema e delle loro soluzioni possibili. La produzione parallela — il cui sviluppo in margine all’economia ricapitola lo sviluppo storico della produzione mercantile — svolge la funzione di correttivo free-enterprise all’economia burocratizzata. Ma la democratizzazione e la “autogestionarizzazione” delle strutture sociali, benché generarici di illusioni, sono anche un fattore favorevole allo sviluppo della critica rivoluzionaria. Lasciano dietro di sé le questioni superficiali della lotta, mentre preparano un terreno più sicuro e più facile a partire dal quale è possibile volgersi a quelle essenziali. Le contraddizioni nella produzione fondate sulla partecipazione democratica, e nella distribuzione parallela rendono facile il deturnamento dei loro beni e dei loro mezzi, al punto da permettere delle “Strasburgo delle fabbriche” quasi-legali.


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La nozione hippie di trip esprime il fatto che quando le merci diventano più abbondanti, più adattabili e più disponibili, la merce particolare si svalorizza a favore dell’insieme. Non si trova nel trip una merce o un’idea particolari, ma un principio d’organizzazione che permette di selezionare fra tutte le merci e tutte le idee. Per contrasto con il blocco di tempo in cui “tutto è compreso”, che è ancora venduto come una merce distinta, il carattere di merce del trip che è indefinitamente ampio (arte, artigianato, passatempi, manie, sottoculture, stili di vita, progetti sociali, religioni), e che comporta un complesso più flessibile di merci e di stars, è nascosto dietro l’attività quasi autonoma che l’individuo ha l’impressione di dominare. Il trip esprime il momento in cui lo spettacolo è diventato così sovrasviluppato che diviene partecipativo. Trova l’attività soggettiva che manca allo spettacolo, ma si scontra con i limiti del mondo dominato dallo spettacolo; limiti che sono ancora assenti nello spettacolo finché resta separato dalla vita quotidiana.


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L’indebolimento dell’impero esclusivo del lavoro, e l’estensione di conseguenza dello svago e della sua frammentazione, danno luogo alla nascita del dilettantismo sempre più esteso della società moderna. Lo spettacolo presenta l’agente segreto che sa a quale preciso grado di temperatura il saké deve essere servito, ed inizia le masse alle tecniche della vita esotica ed ai piaceri sofisticati prima riservati alle classi superiori. Ma il “nuovo uomo del Rinascimento” di cui lo spettacolo celebra l’elogio resta ancora lontano dal controllo della propria vita. Quando lo spettacolo diventa sovrasviluppato e vuole disfarsi della miseria e dell’unilateralità della sua origine, riconosce semplicemente di non essere che un parente povero del progetto rivoluzionario. Può moltiplicare i divertimenti e renderli più partecipativi, ma la loro base mercantile li respinge inevitabilmente nella matrice del consumo. Degli individui isolati possono, in una caricatura di Fourier, riunirsi sulla base di sfumature sempre più precise di gusti spettacolari comuni, ma questi legami li lasceranno nonostante tutto distinti gli uni dagli altri e dalla totalità sociale; e l’attività appassionata ricercata affonderà nella sua trivialità. Il nuovo cosmopolita resta storicamente provinciale.


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All’insoddisfazione crescente, suscitata dalla sua tendenza verso l’uniformità del minimo comune denominatore, lo spettacolo risponde diversificandosi. Le lotte sono incanalate in lotte per un posto nello spettacolo; ciò conduce allo sviluppo semi-autonomo di diversi spettacoli destinati a gruppi sociali specifici. Ma il potere singolare di uno spettacolo gli viene soltanto dall’essere stato posto per un momento al centro della vita sociale. Così l’incremento delle scelte spettacolari riduce al tempo stesso il potere spettacolare, che dipende dall’importanza e dall’asservimento totalitario della pseudo-comunità che lo spettacolo riunisce. Lo spettacolo deve contraddittoriamente essere tutto per tutti gli uomini individualmente, e riaffermarsi continuamente come loro unico ed esclusivo principio d’unificazione.


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Lo spettacolo risuscita ciò che è morto, importa ciò che è straniero, reinterpreta ciò che esiste. Il tempo necessario perché una cosa acquisisca il giusto grado di banalità barocca per essere “retro” diminuisce continuamente; l’originale è lanciato sul mercato simultaneamente alla sua caricatura, dalla quale spesso si può appena distinguere; le discussioni sulle opere artistiche si circoscrivono sempre di più intorno ad un’unica questione intesa ad accertare se una certa è una parodia o no. Ciò esprime il disprezzo crescente per lo spettacolo culturale avvertito dai suoi produttori e dai suoi consumatori. La società produce uno smaltimento sempre più rapido di stili e ideologie, pervenendo a un delirio che non sfugge a nessuno. Nella misura in cui tutte le permutazioni e combinazioni possibili sono utilizzate, le miserie e le contraddizioni individuali si fanno conoscere, e la forma comune che soggiace ai diversi contenuti inizia a distinguersi; “cambiare illusione ad un ritmo accelerato dissolve poco a poco l’illusione del cambiamento”. Con l’unificazione mondiale esercitata dallo spettacolo, diventa sempre più difficile idealizzare un sistema perché è in una regione diversa del mondo; ed la circolazione mondiale delle merci e quindi delle persone rende sempre più vicino lo storico incontro dei proletariati dell’Est e dell’Ovest. Il riciclaggio permanente della cultura essicca e dissolve tutte le vecchie tradizioni per lasciare spazio soltanto alla spettacolare “tradizione del nuovo”. Ma il nuovo perde la sua novità, e l’impazienza della novità generata dallo spettacolo può trasformarsi in impazienza di realizzare e distruggere lo spettacolo, la sola idea che resta in permanenza realmente “nuova e diversa”.


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Poiché la teoria situazionista è una critica di tutti gli aspetti della vita alienata, le sfumature diverse dei situazionismi devono riflettere, in una forma concentrata, le illusioni generali della società; le difese ideologiche generate dai situazionisti prefigurano le difese ideologiche del sistema.


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La teoria situazionista ha chiuso il cerchio quando la sua critica della vita quotidiana arriva a fornire il vocabolario sofisticato per una giustificazione dello statu quo. Ad alcuni individui sono state rimproverate la mancanza di “attitudine al godimento”, di “senso del gioco” o anche di “soggettività radicale”, perché hanno espresso la loro insoddisfazione verso gli pseudo-piaceri autocompiacenti nell’ambiente situazionista; inoltre sono stati accusati di “volontarismo” o di “militantismo” per avere proposto concretamente dei progetti radicali o attività più sperimentali del solito.


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Il vaneigemismo è una forma estrema dell’anti-puritanesimo moderno che deve fingere di prendere piacere da ciò che è supposto darne. Come il cittadino che afferma la sua preferenza per “la vita in campagna” benché, per una ragione o per un’altra, non ci vada mai, e che, quando ci vada, si annoi presto e ritorni in città, il vaneigemista deve fingere il piacere perché la sua attività è per definizione “appassionnante”, anche quando quest’attività è in realtà noiosa o inesistente. Facendo sapere a tutti che “rifiuta il sacrificio” e che egli “chiede tutto”, non differisce dall’uomo delle pubblicità che “esige il meglio”, se non per il grado delle sue pretese e per il suo riconoscimento ideologico — spesso appena più che simbolico — degli ostacoli che incontra sulla via della sua realizzazione totale. Dimenticando l’insoddisfazione e la noia quando sono denunciate in modo noioso, nel momento in cui anche le ideologie più retrograde diventano sinceramente pessimiste ed autocritiche nella loro decomposizione, il vaneigemista presenta un’immagine effettiva di soddisfazione del presente.


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L’egoismo ideologico vaneigemista considera come essenza radicale dell’umanità la condizione più alienata dell’umanità, che si rimproverava alla borghesia che “non lasciava esistere un altro legame tra l’uomo e l’uomo al di fuori del freddo interesse”; differendo solo casualmente dalla versione borghese che prevede mezzi diversi di realizzazione per questo agglomerato di ego isolati. Questa posizione è smentita dall’esperienza storica reale delle rivoluzioni, e spesso anche dalle azioni di quelli che la invocano.


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Lo spirito critico dei situazionisti, come pure la loro “arroganza” calcolata ed il loro utilizzo spesso adeguato degli insulti — una volta usciti dal contesto della lotta attiva per cambiare la vita — trovano un posto naturale in un mondo in cui tutti sono presentati con uno spettacolo d’inferiorità, e dove ciascuno è incoraggiato a pensare che sia “diverso”; dove ogni turista cerca di evitare “i turisti” e dove ogni consumatore si vanta di non di credere alle pubblicità (illusione di superiorità spesso intenzionalmente programmata nei messaggi pubblicitari, per facilitare la penetrazione simultanea e subconscia del messaggio principale). L’individuo pseudo critico afferma, attraverso le sue critiche disdegnose e senza conseguenze, la sua superiorità statica sugli altri individui che hanno illusioni più semplici o almeno differenti. Lo humour situazionista — prodotto dalla contraddizione tra le possibilità latenti dell’epoca e la sua assurda realtà — una volta che cessa di essere pratico, si avvicina semplicemente allo humour popolare medio di una società in cui il buon spettatore è largamente soppiantato dallo spettatore cinico.


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Come reinvestitori delle ricchezze culturali del passato, i situazionisti, una volta che si è perso l’uso di queste ricchezze, si ricongiungono alla società spettacolare come semplici promotori di cultura. Il processo della rivoluzione moderna — la comunicazione che contiene la sua critica, il dominio permanente del presente sul passato — si innesta al processo di una società che dipende dallo smaltimento permanente delle merci, dove ogni nuova menzogna critica le menzogne precedenti. Il fatto che un’opera abbia qualcosa a vedere con la critica dello spettacolo — perché contiene un elemento di “radicalità autentica” o rappresenta un momento della decomposizione dello spettacolo che è stato teoricamente esposto — è appena svantaggioso per essa dal punto di vista dello spettacolo. Sebbene i situazionisti abbiano ragione a segnalare gli elementi deturnabili dei loro predecessori, simultaneamente guadagnano per loro un posto nello spettacolo che, poiché il qualitativo gli manca così crudelmente, fa buona accoglienza all’affermazione che si può trovare qualcosa sul mercato fra le merci culturali. Il frammento deturnato è riscoperto come frammento; quando l’uso sparisce, il consumo rimane; i deturnatori sono deturnati.


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Un concetto così vitale quanto quello di situazionista conosce necessariamente nello stesso tempo gli usi più veri e più menzogneri, con una moltitudine di confusioni intermedie.


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Come con altri concetti teorici fondamentali, non si può eliminare la confusione interessata che si applica al concetto di situazionista eliminando l’etichetta di situazionista. Le ambiguità di questo termine riflettono le ambiguità della critica situazionista stessa, al tempo stesso separata della società che combatte e facendone parte, al tempo stesso partito separato e negazione di questa separazione. L’esistenza di un “milieu situazionista” distinto, che è sia concentrazione sociale della coscienza rivoluzionaria avanzata che personificazione sociale del situazionismo concentrato, esprime le contraddizioni dello sviluppo ineguale della lotta cosciente in quest’epoca. Anche se essere esplicitamente situazionista può essere appena la garanzia di una pratica intelligente, non esserlo praticamente è una garanzia di obiettivi di falsificazione, o di un’ignoranza sempre più difficile da mantenere involontariamente. Lo “spettacolo” sarà considerato come un concetto specificamente situazionista, finché sarà considerato soltanto come un elemento periferico tra gli altri della società. Ma quando questa società respinge simultaneamente i suoi aspetti centrali e la teoria che li ha articolati più radicalmente, e pensa così di prendere due piccioni con una fava trattando insieme questi due elementi della realtà che non si lasciano ridurre in categorie, essa conferma la loro reale unità; come quando, ad esempio, la bibliografia di un lavoro associa in una stessa rubrica “vita quotidiana, società di consumo e temi situazionisti”.


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Per l’I.S., l’etichetta situazionista è servita a decidere tra l’incoerenza dominante ed un’esigenza nuova. L’importanza di questo termine deperisce nella misura in cui le nuove esigenze sono in gran parte conosciute e praticate, nella misura in cui il movimento proletario diventa situazionista. Tale etichetta facilita anche la categorizzazione spettacolare di ciò che rappresenta. Ma questa categorizzazione espone nello stesso tempo la società alla coerenza delle diverse posizioni situazioniste che un’etichetta unica rende possibile; il lato della barricata a favore del quale tenderà questa bilancia dipende dall’insieme dei significati posseduti dal termine in un momento dato. È l’incisività del termine che è in gioco nei diversi confronti per sapere se qualcuno o qualcosa è situazionista; è una vittoria considerevole di questa incisività il fatto che il termine “pro-situazionista” sia stato riconosciuto universalmente come peggiorativo. Benché la loro associazione all’etichetta non possa servire a difendere degli atti, in un certo senso gli atti dei situazionisti difendono il termine “situazionista”, contribuendo a presentarlo come una bomba troppo concentrata e troppo pericolosa perché la società vi giochi. Così, la società che presenta con poche difficoltà alcuni dei suoi settori come “comunisti”, “marxisti” o “libertari” trova ancora impossibile o imprudente presentare uno dei suoi aspetti come “situazionista”, mentre lo avrebbe certamente già fatto se per esempio un senso “nashista” (opportunista e neo-artistico) del termine fosse prevalso.


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Ai suoi inizi, quando nessun’altra le si avvicinava, la critica situazionista sembra così intrinsecamente anti-ideologica ai suoi difensori, che difficilmente possono immaginare un situazionismo, che non sia un’enorme menzogna o un malinteso. “Non c’è situazionismo”, è una “parola priva di senso” dichiara l’Internazionale Situazionista n. 1. Una semplice distinzione basta a difendere il termine dal cattivo uso. La Quinta conferenza dell’I.S. decide che tutti i lavori artistici prodotti dai suoi membri devono essere esplicitamente definiti “anti-situazionisti”. Ma la critica situazionista, che si oppone per definizione alla sua ideologizzazione, non può definitivamente o assolutamente separarsene. L’I.S. scopre una tendenza “infinitamente più pericolosa della vecchia concezione artistica contro cui abbiamo tanto lottato. Era più moderna quindi meno evidentemente chiara (...) Il nostro progetto si è formato contemporaneamente alle tendenze moderne all’integrazione. Vi è quindi un’opposizione diretta, ed anche una certa somiglianza, in quanto siamo realmente contemporanei (...) noi siamo obbligatoriamente sulla stessa via dei nostri nemici — quasi sempre davanti a loro” (I.S. n. 9).


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È notorio che l’intelligentsia moderna ha spesso utilizzato alcuni elementi della teoria situazionista; un tempo senza riconoscerlo, più recentemente riconoscendolo spesso (un tale plagio è divenuto molto difficile da mascherare, ma allo stesso tempo l’associazione spettacolare con i situazionisti aumenta il prestigio di questo plagio, più di quanto la rivelazione della sua dipendenza verso di loro non lo diminuisca). Ma ancora più significative sono le molte manifestazioni teoriche ed ideologiche che, senza alcuna influenza diretta dei situazionisti, ed anche senza conoscere la loro esistenza, sono ineluttabilmente condotte verso le stesse questioni e le stesse formulazioni, perché quest’ultime non sono nient’altro che gli aspetti fondamentali intrinseci della società moderna e delle sue contraddizioni.


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Nella misura in cui la teoria situazionista si sviluppa e si approfondisce, la società moderna deve recuperarne sempre maggiori elementi; semplicemente per comprendere un minimo del suo funzionamento e della sua opposizione, o per costruire lo spettacolo che rifletterà ciò che è più generalmente desiderato; altrimenti, respingendo l’esistenza di questa teoria, si espone ai suoi “angoli ciechi” che crescono di conseguenza.


32

Tutto ciò che l’I.S. ha detto sull’arte, il proletariato, la vita quotidiana, l’urbanismo, lo spettacolo, si trova oggi sparso ovunque, meno l’essenziale. Nell’anarchia del mercato ideologico, le ideologie particolari incorporano elementi della teoria situazionista, separandoli dalla loro totalità concreta; ma se si considerano queste manifestazioni nel loro insieme, esse riuniscono effettivamente questi elementi come una totalità astratta. Tutta l’ideologia modernista, presa in blocco, costituisce il situazionismo.


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Il situazionismo è il furto dell’iniziativa al movimento rivoluzionario, la critica della vita quotidiana condotta dal potere stesso. Lo spettacolo si presenta, se non come l’iniziatore, almeno come il forum necessario dove si possono discutere le idee della sua distruzione. Le tesi rivoluzionarie non appaiono come le idee dei rivoluzionari, cioè legate ad un’esperienza ed un progetto preciso, ma piuttosto come un accesso improvviso di lucidità dei dirigenti, delle stars e dei mercanti di illusioni. La rivoluzione diventa un momento del situazionismo.


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La società del situazionismo non sa di esserlo; sarebbe troppo prestarle questa lucidità. Solo il proletariato può comprendere la sua totalità distruggendola. È il campo rivoluzionario soprattutto, che genera le diverse illusioni e le sfumature ideologiche che possono sostenere il sistema e giustificare uno statu quo restaurato. I successi stessi delle rivolte, che sono arrivate ad un punto d’equilibrio ambiguo con il sistema, servono in parte a fare la pubblicità della grandezza di un sistema che può generare ed adattarsi a tali successi radicali.


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È nell’essenza del situazionismo di non essere realizzabile immediatamente, né completamente. Non vuole essere preso alla lettera, ma seguito ad una minima distanza; se questa distanza è soppressa, la mistificazione appare.


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Producendo il suo situazionismo, la società fa volare in pezzi la coesione delle altre ideologie, fa piazza pulita delle falsificazioni arcaiche ed accidentali, e riunisce i frammenti che può reintegrare. Ma concentrando così la falsa coscienza sociale, la società prepara la strada all’espropriazione di questa coscienza espropriata. Il carattere sofisticato del recupero costringe i rivoluzionari a disingannarsi, la sua unità spinge il conflitto verso un livello più elevato, e gli elementi di situazionismo diffusi universalmente incitano al loro superamento, in regioni in cui ancora non si erano neppure sviluppati a partire da una base teorica locale.


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L’I.S. fu esemplare non soltanto per ciò che ha detto, ma soprattutto per tutto ciò che non ha detto. La prolissità diluisce il potere della critica. La discussione sui punti che non fanno la differenza offusca i punti che la fanno. Quando sale sulla tribuna dello pseudo-dialogo dominante, la verità si trasforma in un momento della menzogna. I rivoluzionari devono saper tacere.

KEN KNABB
1976

 


Versione italiana di The Society of Situationism, traduzione dall’inglese di Omar Wisyam.

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